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Il predestinato di Heppenheim

di Filippo Gherardi

 

Heppenheim è una piccola città di 25mila abitanti dell’Assia, regione, o land se preferite, del sud della Germania. Poco più di un nome scritto su una cartina, ma tuttavia luogo di santi e predestinati. Tra i cittadini illustri di questo piccolo spicchio di mondo figura tale Marianna Cope, religiosa morta nel 1918 e santificata da Benedetto XVI poco più di un anno fa. Una predestinata della fede, una che, considerati anche i tempi in cui ha vissuto, difficilmente avrà mai viaggiato oltre i 50 km/h. Niente a che vedere insomma con Sebastian Vettel, anche lui di Heppenheim ma a differenza di Marianna Cope molto più legato ed abituato alla velocità. Con la vittoria dello scorso 27 ottobre in India, seguita a distanza di una settimana dall’undicesimo successo stagionale raccolto ad Abu Dhabi, Vettel è diventato per la quarta volta di fila campione del mondo in Formula 1, raggiungendo nella classifica “all time” un mostro sacro come Alain Prost, e lasciandosi alle spalle nomi del calibro di Senna, Lauda, Stewart, Brabham e Piquet. Davanti a lui, ora, soltanto Juan Manuel Fangio e Michael Schumacher, qualcosa di molto vicino alla storia assoluta di questo sport. Due fuoriclasse che a metà anni cinquanta (Fangio) e ad inizio nuovo millennio (Schumacher) hanno finito col tracciare in maniera indelebile un’era. Lo stesso che sta facendo Vettel adesso, che però a differenza tanto di Fangio quanto di Schumi dalla sua ha un’età anagrafica (appena ventisei anni) che sembra essere, mai come in questo caso, la più valida alleata per riscrivere una pagina a dir poco cruciale dell’epopea dello sport più amato (e seguito) tra tutti quelli a quattro ruote. Nelle scorse settimane si è riflettuto e discusso a lungo su fino a dove arrivassero i meriti di Vettel e dove, al contrario, i demeriti degli altri. La Red Bull perfetta progettata da Adrian Newey rischiava di essere un alibi fin troppo comodo per chi, Alonso in primis, ai livelli del tedesco negli ultimi anni non è riuscito a gareggiare. Ed invece Vettel e i suoi record ormai infiniti, Vettel e la sua fame incessante di vittoria (ricordate Gp di Malesia e sorpasso su Webber? ndr) e Vettel con la sua sapiente gestione dell’intero fine settimana, oltre che con la sua capacità di fare il vuoto in corsa, finiscono col fornire la più esplicita delle risposte: Vettel vince perché è il più forte. Premesso ciò non diventerà mai un santo come la Cope, ma se non altro continuerà a confermarsi un predestinato ancora per lungo tempo. Il predestinato di Heppenheim.